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[EVSL] Coma(rketing) Cose

2023-04-01 01:26| 来源: 网络整理| 查看: 265

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Mi chiedo se le auto oggetto della rubrica Drive Club di Sky TG24 siano scelte a caso o no.

Sono sempre stupito da quanti contest online ci siano per diventare (poche) tester gratuite di prodotti di bellezza. In cui sono i dati e le mail a fare gola, probabilmente, più che le opinioni delle partecipanti (il femminile non è casuale).

AI di cui tutti parlano: mandiamo lunghe mail con AI, le riassumiamo con AI, così tutti facciamo finta di lavorare, dice Marketoonist.

Vi ricordate ancora il caso social del Parmigiano, “Renatino”? Non ha influito minimamente sul fatturato. Ma probabilmente non avrebbe influito in nessuno dei due sensi di marcia possibili. Sì, è la settimana del Cibus.

Substack continua a lamentarsi per la lunghezza della mail e io continuo a fregarmene.

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Come sempre, per sponsorizzare questa newsletter, rispondi alla mail e chiedimi. Anche oggi c’è una sorpresa che potrebbe interessarti, comunque.

Comarketing, l’araba fenice

Un mio capo una volta mi disse: “Gianluca, quando senti co-marketing, scappa”. Ovviamente mi ricordai di quell’insegnamento troppo tardi, coinvolto in un bizzarro progetto in cui teoricamente la mia azienda e quella appunto co- avrebbero dovuto collaborare a una campagna “in piena logica win-win”. A mia discolpa, io ero product manager e per me in quel momento, in piena penuria di visibilità interna e di soldi di budget, il mantra era “Franza o Spagna, purché se magna”, quindi feci mettere timidamente a verbale che c’erano “dei constraints” e “delle bandierine”.

Il comarketing nel mondo pre-digitale o quasi – sia pure nel mondo IT – era un incubo: riunioni con numero smisurato di partecipanti, la maggior parte concentrata sul proprio personalissimo calcolo rischio/opportunità/sbatti, dettagli come la grandezza comparata dei loghi o l’ordine di comparizione dei brand coinvolti discussi allo sfinimento. Ovviamente ogni brand era convinto di fare un favore all’altro, perché “eh, la nostra reputazione, il nostro parco clienti, il nostro heritage”, ecc. ecc. Di solito è vero, ma non si sa qual è dei due che sta barando. La spartizione dei profitti era sempre più dettagliata di come fare profitti – che di solito, infatti, non si verificavano. Non frequentemente, almeno, nella mia esperienza. Per fortuna, nella maggior parte dei casi i contratti, quando c’erano e non erano solo blande dichiarazioni di intenti, evitavano di finire in tribunale, soprattutto perché nessuno aveva poi voglia di far ricordare i propri fallimenti nel curriculum. In questo caso le brochure congiunte finivano nei cestini degli uffici, e via.

Il problema era che quasi mai il cliente ne aveva un vero vantaggio, dal comarketing. Il cliente non aveva, come raccomandava Bezos, una sedia riservata alle riunioni. A volte l'intersezione tra i clienti potenziali dei due o più brand era l’insieme vuoto. A volte il posizionamento (la premiumosità) era diversa. A volte il cliente preferiva scegliere, e quella combinazione artificiale di brand gli era indigesta. Il mio caso era “brand di server taiwanesi in bundle con connettività norvegese”. Vi avevo detto di bandierine, no?

Eppure, la nostra ricerca against-all-odds di comarketing dimostra che forse qualcosa di buono ci deve essere, solo che non riusciamo spesso a trovarlo. Io mi sono appuntato queste bandierine:

il cliente ne deve avere un vantaggio concreto e tangibile – cosa ci guadagna? (sembra scontato ma non lo è)deve essere una transazione facile da eseguire – il dettaglio è tutto;ci deve essere una comunanza di valori tra i brand;il vantaggio per i brand deve essere consolidabile attraverso i dati dei partecipanti;le organizzazioni “profonde” devono averne un vantaggio – i venditori dei singoli brand, per esempio.

Se ne manca anche solo una, la cosa non funziona.

Eppure credo (colpo di scena!) che nel contesto fluido del digitale e del direct-to-consumer la possibilità di collaborare tra brand sia ancora ampiamente sottosfruttata. Condivisione di newsletter, inserimento di prodotti in catalogo anche in dropshipping, o perfino prodotti congiunti, scambio di visibilità su social (ad altro livello le famigerate clean room di scambio dati) possono essere opportunità di servire meglio il cliente, e di sfuggire al monopolio di Google e Meta nell’acquisizione dei clienti.

Il commercio ha sempre lavorato di comarketing o meglio, i brand hanno sempre convissuto. I centri commerciali più o meno naturali o artificiali, o gli stessi negozi multimarca, o perfino i supermercati sono esempi di coabitazione. I vantaggi per il cliente erano la facilità, la comparazione, il tempo. Oggi possiamo andare oltre, con il digitale, e offrire le stesse cose (o altre) in modi indipendenti dallo spazio fisico.

Leggevo questo passaggio su Contagious:

Gyms are no longer just for exercise, for example, they’re also for socialising. And brands should think hard about what they can offer their customers beyond the obvious, says Lewis.Lewis’ conclusion from the month-long study is that in times of economic turmoil, ‘no brand is an island’. ‘Partnership, for a vast majority of brands, is possibly the only way out of some of their situations,’ she says.If people are dating less, and you're a restaurant, you could partner with Tinder and when two people match, you could offer them a discount to go and eat in your restaurant, for example. (da qui).

Quindi aggiungerei un ultimo punto, grazie a uno schema presentato da Erika D’Amico in un webinar in cui l’ho intervistata, ripreso dal suo/loro libro House of Brands: spostare il pensiero, sia della competizione che della cooperazione tra. brand, dalla category all’arena, o addirittura al contesto.



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